Se io fossi Spiderman

Se io fossi Spiderman…
Mettersi davvero nei panni altrui è difficile (e l’egoismo non c’entra)

Mettersi nei panni altrui, cambiare punto di vista, adottare un’ottica diversa, è un’abilità che può tornare utile in molte situazioni negoziali. E anche nella pratica del coaching, del counseling, e più in generale in tutti i contesti in cui si vuole davvero comprendere la dinamica dell’esperienza altrui. A volte ci si riesce, ma il risultato non è sempre garantito, a dispetto anche dell’eventuale buona volontà. Dove sta l’inghippo?

Se io fossi Spiderman

A tutti nella vita capita ogni tanto di sentirsi chiedere di cambiare punto di vista, di mettersi nei panni di qualcun altro. A volte ci si riesce, ma il più delle volte in modo parziale e stentato. Spesso entriamo anche in conflitto con noi stessi, soprattutto quando da una parte abbiamo qualcuno che sollecita comprensione e compassione, ma dall’altra il ragionamento e ciò che sappiamo ci spinge in una direzione opposta: caso tipico l’elemosina per strada, oppure la necessità di dover prendere le distanze da una persona che tutto sommato ci è simpatica.

Poi ci sono situazioni in cui vorremmo riuscire deliberatamente a metterci nei panni di qualcun altro per capire come ragiona e riuscire meglio a influenzarlo. Accade nel lavoro ma anche nelle pratiche educative e di supporto alla persona, come il counseling o il coaching. Anche qui l’esito dell’impresa non è affatto scontato.

La Natura ci ha dotati dell’empatia, dovuta – per quanto se ne sa fino a oggi – all’azione dei Neuroni Specchio. Diversamente a quanto si pensa di solito, l’empatia non è un tratto caratteriale e nemmeno un’abilità, ma un portato del fatto che siamo una specie sociale. Scatta automaticamente, soprattutto in situazioni ad alto gradiente emotivo (qualcuno in pericolo, minacciato da disastri, da rovesci esistenziali e così via). Tuttavia l’empatia non è esente da inconvenienti: oltre ad attivarsi fuori dal nostro controllo razionale, ha anche l’effetto di ottundere la nostra capacità di analisi e valutazione della situazione- caratteristica molto sgradita quando invece sarebbe opportuno uno sguardo oggettivante ed emotivamente “freddo”.

 

La tecnica delle Posizioni Percettive: funzione e limiti

Nella PNL esiste uno strumento che – con i limiti che vedremo – può aiutarci a metterci nei panni altrui: è la tecnica della Posizioni Percettive. Il presupposto è che noi possiamo “collocare” in punti diversi la posizione da cui la nostra mente cosciente percepisce un evento. Ad esempio, posso immaginare me stesso nella mia auto in movimento da più punti di vista: posso vedere la strada e le mie mani che stringono il volante, oppure vedere me stesso dal sedile di fianco o ancora da quello posteriore. E fin qui è tutto ok.

Ma potrei anche immaginare di essere un’altra persona – ad esempio un mio amico – che mi osserva mentre sto guidando (la cosiddetta “seconda posizione percettiva”). E qui nasce subito una domanda: le sensazioni che io attribuisco alla persona che mi osserva sono realmente le sue? Oppure sono sempre le mie sensazioni, modificate da quello che io credo di sapere sul mio amico? Per essere più chiari, se io immagino di essere Spiderman che mi osserva, è evidente che io non vedrò le cose come le vedrebbe lui, ma come le vedrei IO se fossi Spiderman. Il problema poi si aggrava se cerco di immaginare che opinioni ha Spiderman su di me quando io mi osservo attraverso i suoi occhi.

Certo, posso agevolare l’immedesimazione con il rispecchiamento, imitandone postura, espressione e gestualità, indossando il suo costume e compiendo – se ci riesco – qualche gesto eroico; ma resta il fatto che sono sempre io, e non lui, con la sua storia, le sue motivazioni, i suoi timori e così via.  E’ dimostrato piuttosto che il rispecchiamento corporeo svolge un altro ruolo significativo, che è quello di accedere a uno stato emotivo simile a quello del soggetto rispecchiato: è un primo passo importante, che tuttavia non porta ancora a comprendere e utilizzare i presupposti cognitivi che l’altra persona sta mettendo in gioco.

In sintesi:

  1. Il vissuto soggettivo di una determinata situazione non è una semplice questione percettiva, ma il risultato di una complessa interazione tra percezione e un insieme di costrutti cognitivi ed emotivi personali
  2. Se io non sono cosciente di questo fatto, questo stesso sistema di costrutti deformerà inevitabilmente le informazioni che mi giungono quando credo di essermi messo nei panni di qualcun altro.
  3. L’abilità nel metterci nei panni altrui non è questione di altruismo o egoismo e nemmeno di buona volontà, ma di quanto conosciamo noi stessi e di quanto conosciamo l’altro, di quanto siamo in grado di sospendere i nostri pregiudizi e di quanto siamo flessibili nell’accogliere -almeno operativamente – quelli altrui.
  4. Esiste una relazione diretta tra conoscenza, comprensione e identificazione, nel senso che più conosco una persona, le sue credenze e presupposti – più posso avvicinarmi alla comprensione di CHI sia questa persona, e quindi disporre di più informazioni per “entrare nella parte”: un problema con cui spesso devono misurarsi gli attori. 

 

E’ possibile conoscere e importare i presupposti altrui?

In tema di costrutti cognitivi, credenze e presupposti, la PNL offre un potente strumento di indagine: è lo schema dei Livelli Logici, che è possibile usare sia su di sé che sugli altri per raccogliere informazioni su aspettative, credenze, valori e identità. Tant’è che questo schema è la colonna portante di un altro capitolo della PNL, il Modellamento: una procedura esplicita attraverso cui è possibile “importare” una determinata abilità da un soggetto che la possiede in modo evidente.  Ripetute evidenze sperimentali mostrano che questo processo è favorito da due condizioni:

  • Un’elevata considerazione personale verso la figura che ci ispira
  • Un’alta motivazione a fare propria l’abilità che la persona ispiratrice dimostra di possedere

Difficile dire quale condizione arrivi prima, benché sia evidente il reciproco rinforzo: ammiro una persona e quindi voglio diventare simile a lei sviluppando l’abilità che la caratterizza maggiormente, e viceversa voglio sviluppare una mia abilità per la quale mi sento dotato e quindi scelgo di imitare un individuo che considero eccellente.

Questi due fattori – altamente emotivi – hanno un ruolo attivante verso l’apprendimento imitativo gestito dai Neuroni Specchio, e sovente il risultato va oltre l’importazione della semplice abilità, estendendosi anche ad aspetti che riguardano comportamenti, valori, identità: e si parla infatti di identificazione “in” qualcun altro. Un fenomeno simile si verifica anche quando è in gioco un forte legame affettivo: un esempio classico, i bambini verso gli adulti di riferimento. Naturalmente quando parliamo di identificazione non stiamo dicendo che possiamo portare la nostra testa a coincidere totalmente con quella di un’altra persona, ma più modestamente a rimodellare certi tratti del nostro sistema cognitivo per armonizzare l’interazione reciproca in funzione di determinati obiettivi personali. 

 

Mettersi nei panni altrui: una sequenza PNL possibile

A questo punto la domanda è se sia possibile adattare questa tecnica per avere accesso al mondo interiore altrui anche quando le due condizioni sopra citate non ci sono, e magari la nostra conoscenza dell’interlocutore è ancora sommaria. Quali altri fattori ad alta energia emotiva possiamo mettere in gioco?  Qua proponiamo un esempio di sequenza operativa ottenuta da un mix tra Posizioni Percettive e Livelli Logici. Poniamo il caso che siate il signor Tizio interessato a mettersi nei panni del signor Caio per i motivi più disparati (cura e aiuto, ma anche negoziazione o influenzamento) .

Per iniziare, occorre accedere a uno stato emotivo adeguato: curiosità, sfida con se stessi, solidarietà, o anche creatività. E’ meglio lasciar fuori stati emotivi troppo “caldi”, come compassione o simpatia (e ovviamente attrazione sessuale): questo per evitare di finire in un generale appannamento cognitivo. Per farlo, è molto meglio attivare il rispecchiamento, in modo da riuscire ad accedere allo stato emotivo dell’interlocutore. A  questo punto possiamo immedesimarci in lui, immaginare come può percepire la situazione, vedere il contesto attraverso i suoi occhi e rivolgersi tre “autodomande” in successione:

  1. Ora sono Caio in questo contesto, come mi sento? Cosa penso di me stesso?“
  2. “Sono Caio, e Tizio è qui davanti a me. Che sensazioni mi trasmette?”
  3. Essendo Caio, a cosa tengo soprattutto in questo momento?”

Alcune avvertenze: la prima è di usare esattamente le domande così come sono scritte qua sopra: verbi e sostantivi non sono scelti a caso, occorre solo rimpiazzare Tizio e Caio con i nomi reali. La seconda è che la funzione di queste domande rivolte a “se stessi nei panni altrui” non è quella di darci certezze assolute su chi abbiamo davanti, ma di fornire un possibile quadro operativo da cui partire. Da cui la terza avvertenza: se le risposte che ci diamo non ci portano lontano, possiamo sempre rifarci le domande tenendo conto dei feedback ottenuti. Curare continuamente il rispecchiamento. E infine, quarta precisazione, occorre essere veloci e decisi nel procedere, andare per intuizione e aggiustare il tiro mentre l’interazione procede. L’intera sequenza non dovrebbe durare più di una ventina di secondi, meglio se sono anche meno. Un vantaggio aggiuntivo di questa tecnica è di mantenerci attenti e concentrati sull’altro, su noi, e in definitiva sul processo.

 

Una semplificazione consapevole

Va chiarito che per questa tecnica abbiamo operato una semplificazione, presupponendo uno schema di influenzamento lineare e monodirezionale. Come ha chiarito a suo tempo Gregory Bateson, le cose non stanno esattamente così: ogni interazione è circolare, ricorsiva e contestuale, ed entrambi i partecipanti vengono continuamente modificati dall’intreccio di influenze reciproche, dove somiglianze e differenze vengono continuamente decostruite e ricostruite. Ma la complessità che ne deriva diventa chiaramente ingestibile, per cui abbiamo adottato un accorgimento tipicamente usato in ingegneria, la linearizzazione.

Ossia facciamo “come se” le cose fossero appunto lineari e monodirezionali pur sapendo che non è così. Per fare un esempio, se io chiedo un caffè al bar posso avere una buona – ma non totale -certezza che l’otterrò, perché il contesto è in genere favorevole, il barman fa il suo mestiere e l’interazione è breve. E se il caffè non arriva, posso rifare la richiesta con le modifiche opportune. Nel nostro caso l’influenzamento desiderato può essere ottenuto per approssimazioni spezzettando l’intero processo in più brevi sequenze che si ripetono:
Ascolto – Rispecchiamento – Autodomande – Azione – Feedback.

In conclusione, una considerazione generale: accertato che non sarà mai possibile azzerare la differenza tra noi e l’altro, è altrettanto vero che non esistono limiti precostituiti a quanto possiamo ridurla. Naturalmente servono allenamento e motivazione, tenendo presente che con il tempo la capacità e l’abitudine di mettersi “nei panni altrui” renderanno l’operazione sempre più facile e veloce.

Di Camillo Sperzagni

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