La mia maschera, le mie maschere: e le vostre?

Maschera

La prima volta che ho sentito parlare della mia maschera ero una ragazzina


di Valentina Ferrari

E’ strano come le persone possano parlare di te dicendo cose che non sai o non riconosci.
Vi è mai capitato che qualcuno parlasse di voi e voi esclamaste: “Io? Ma non sono così!”. Ecco quella sensazione lì, fra sorpresa e vergogna, se ci descrivono brutti e cattivi oppure fra sorpresa e piacere, quando veniamo dipinti belli e buoni.

Non ero ancora maggiorenne e già alcuni miei compagni o amici mi intrattenevano sulle mie maschere. Improprie. Facevo casino, lo ammetto. Come adesso, con l’irruenza dell’adolescenza in più. Non ero come le altre, ma le altre com’erano? Chi lo sa! E soprattutto chi se lo ricorda. So soltanto che quella con la maschera ero io. Anzi le maschere. La donna vissuta, la ragazzotta grezza, la contestatrice, la femminista, la comunista, la fatalona, l’impertinente e molte altre. E avevo una fortuna incredibile: trovavo sempre qualche ragazzo e a volte anche qualche ragazza che me le mostrasse, invitandomi ad essere davvero me stessa: buona e brava, magari un po’ più silenziosa e riservata. Erano tutti molto sicuri di quello che ero. Naturalmente esclusa me. Io mi divertivo ad essere molte cose e diventava faticoso soltanto quando mi sarebbe piaciuto che qualcuno in particolare si affezionasse a me proprio per intero. Perché doveva essere così difficile? Mi capitò persino di essere rimpiazzata sentimentalmente da un’altra ragazza perché più “se stessa”.

Ora, che sono una signora di mezza età, mi viene da sorridere.
Il mio ragazzino poteva solo dire: “Lei mi piace di più”. Invece no.
Se qualcuno non mi voleva più, la colpa era mia. Quello che ero o non ero.
Eppure, devo ringraziare questa esclusione dal mondo di quelli che sono esattamente quel che sono: spontanei, veri e sempre se stessi con un unico volto. Fu grazie a quello che cercai il teatro, l’aula, il counseling e il coaching. Un posto dove poter essere tutte le mie maschere senza doverle sacrificare. E sempre grazie all’esclusione, ad un tratto mi misi a volere davvero l’amore. Quello che si è preso tutto e non ha voluto lasciare indietro niente.

Adesso sono grande e ho anche studiato. So che le maschere le abbiamo davvero tutti. Capisco persino i miei coetanei e le mie coetanee di allora. C’era una maschera che dominava le altre: ero una rompiscatole. Il loro era un modo semplice e inconsapevole per contenermi. Non ce l’hanno mica fatta. Rompo le scatole ancora e sono tante cose. Avevo ragione. Anche loro erano e sono tante cose. Chissà se se ne sono resi conto anche loro. E sono liberi ora. Come me.

“Gli altri vi sanno” disse una volta un regista nel corso di un laboratorio teatrale 


di Silvia Pietta

Sono passati quasi dieci anni da quel laboratorio, ma quella frase da allora  mi è rimasta in testa.

Si riferiva al fatto che gli altri ci definiscono con le etichette che ci mettono, e spesso quelle etichette diventano delle profezie auto-avveranti, dei ruoli nei quali siamo catalogate e relegate ,in accordo ai quali saremo chiamati ad agire.

Le Maschere sono quelle etichette, a cui si aggiungono quelle che noi stessi ci mettiamo.
Se penso alle mie , ne ho collezionate diverse:

  • Il maschiaccio
  • La disordinata
  • Quella che spacca le sedie
  • La materna
  • La disponibile /sorridente
  • Quella affidabile
  • La prima della classe

Andando avanti con la riflessione, sempre attingendo al Teatro, non posso non pensare alle Maschere nell’accezione della Commedia dell’Arte. Lì le maschere sono i vari ruoli stereotipati della Commedia (il Servo Scaltro, il Padrone tronfio e gretto, i Giovani Innamorati , etc, etc)  sempre uguali a loro stessi , obbligati a svolgere sempre la stessa funzione narrativa. Questi ruoli sono chiamati anche i caratteri e risulta quindi chiaro come ad ogni maschera corrisponda un definito e pre-definito modo di agire .

I caratteri, in una visione drammaturgica moderna, appaiono come superati in quanto non riescono a tener conto delle stratificazioni e delle complessità psicologiche di un personaggio / persona. E così anche noi, quando finiamo per identificarci o farci identificare con una sola delle nostre maschere, aderiamo ad un processo di semplificazione, che non tiene conto della varietà e complessità della nostra identità.

La nostra realtà si avvicina maggiormente al pirandelliano “ Uno, Nessuno e Centomila”. 
Siamo la somma sistemica delle nostre maschere e credo che conoscerle, interrogarsi su quali maschere portiamo, in quale contesto le portiamo e con quale scopo  le  portiamo, sia un potente e creativo strumento  non solo per liberarci da “quelle etichette che ci sanno” , ma anche per usarle all’occorrenza a nostro vantaggio.

 

Valentina Ferrari e Silvia Pietta
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