Il problem solving ci ha stancato

Saper affrontare e risolvere problemi è importante, ma attenti agli eccessi.

Scena: una media azienda di software in cui ci sono problemi  nel customer care.
Il personale addetto è stressato e in sovraccarico, i clienti danno segnali allarmanti.Chiediamo quanto tempo della giornata passano ad affrontare problemi imprevisti.
Circa il sessanta per cento, rispondono.  Facciamo notare che se degli imprevisti sono previsti nel sessanta per cento dei casi, è assurdo parlare di “imprevisti”, forse il nodo da risolvere è altrove.  Sguardi sconcertati, bocche spalancate e silenziose.

E’ solo una scena tipica, se ne potrebbero citare a decine.  La realtà dimostra che l’attitudine alla reattività estrema, al  “Quick and Dirty”, porta invariabilmente a ingigantire le difficoltà anziché a risolverle. Come recita l’agenda di Murphy “sono le soluzioni che generano i problemi”.
Il perchè è presto detto e ha a che fare con tre dimensioni: la prima è matematica, la seconda psicologica, la terza è strategica. Vediamole.

1.Il problem solving funziona solo con sistemi lineari

Il classico schema “problem solving” in sei passi (Individuazione- analisi del problema e divisione in sottoproblemi – individuazione di ipotesi di soluzione- verifica della loro validità – valutazione degli effetti – azione) funziona solo quando si tratta di problemi di tipo “meccanico”, mai invece quando si ha a che fare con problemi di tipo sistemico o relazionale. In sintesi: se è il problema di un macchinario lo schema funziona, se no lasciate perdere.

2.Il problem solving genera stress

Avere costantemente a che fare con problemi fa vivere in situazioni da cui si vuole uscire. La mente è piena di immagini negative, lo stato emotivo è spiacevole,  ogni compito diventa problematico. E il tutto dà la spiacevole sensazione di essere in un loop senza fine. Il burnout è dietro l’angolo.

3.Il problem solving non dà direzione evolutiva

Il fatto di voler uscire da qualcosa o evitare qualcosa non dice da che parte andare.
Un’organizzazione che lavora solo per problem solving non ha tempo né idee di come crescere o svilupparsi. E si lavora sempre in trincea.

Il segreto per uscire dalla trappola è semplice da dire: passare da una mentalità problem solving a una goal setting, cioè di progettazione obiettivi. Pianificare l’attività per raggiungere obiettivi e relegare i problemi a casi eccezionali è lo snodo per avere un’azienda sana che cresce e in cui la gente lavora con motivazione.

Per poter effettuare questo passaggio occorre però disporre di strumenti adeguati e sviluppare una cultura interna  basata sulla delega, il senso di appartenenza, la creazione di valore.  Per iniziare, occorre ripensare ai criteri di importanza e urgenza con cui si assegnano le priorità, come diceva Covey. Un esempio di griglia analitica per trasformare i problemi ricorrenti in obiettivi è lo schema SCORE:  Sintomi- Contesto- Obiettivi- Risorse- Evidenze.  Il cuore di questo strumento è il punto tre, che risponde alla domanda:  se non voglio più questo problema, cosa voglio invece?  Un interrogativo cruciale a cui spesso –e sorprendentemente- i diretti interessati non sanno dare risposta.